Una
valle che scompare
ne: Casentino 2000, il mensile per conoscere e vivere il Casentino. anno XV - n.159 - Febbraio 2007 |
Il paesaggio rurale classico del Casentino sta scomparendo, distrutto dall'incuria e dal cemento. Cosa fare per salvarlo? Vigilia di Natale 2006. Moggiona, antico sobborgo ai piedi del Monastero di Camaldoli. Temperatura esterna alle due del pomeriggio: 12-13 gradi sopra, dicasi sopra, lo zero. Nella sede della pro-loco viene presentato un libro di foto d'epoca del paese: cartoline e antiche comunità paesane schierate, vecchi mestieri e bande musicali, matrimoni e battesimi, l'abito buono tirato fuori per la posa e allegre partite di calcio. "Moggiona Novecento. Il paese, la sua gente", questo il titolo del volume, uscito per i tipi delle Edizioni Fruska di Stia. Sfogliando il testo, ci vengono incontro numerose foto di paesaggi innevati, le anguste stradine del borgo ostruite da masse di neve all'altezza delle finestre del primo piano; a chiudere gli occhi par di sentir fischiare un vento a dieci gradi sotto zero, quello stesso che, per dirla alla Battiato, come una raffica di mitra disintegrava i cumuli di neve nella Prospettiva Nevskij della Leningrado del 1917. E, ancora, ambientazioni alla Pinocchio: l'acciottolato sconnesso, la pareti scalcinate delle casette di montagna, gli angusti laboratori dei vecchi bigonai che ricordano così da vicino la bottega di Geppetto e quell' odore di nevischio portato dalla tramontana, lassù all'Eremo sarà già venuto un metro di neve e presto arriverà anche qui, forza corriamo in casa, portiamo dentro la legna per la notte. Oggi però, 24 dicembre 2006, di neve a Moggiona neanche l' ombra, una grossa farfalla colorata (sarà Babbo Natale travestito?) che si è ben ambientata nella sede della proloco, svolazza e volteggia allegra sopra le teste dei presenti molti dei quali, per il caldo, si tolgono piumini e cappotti e si allontanano sudati dal bel fuoco acceso per fiducia e per tradizione nel grande focolare che troneggia in un lato della stanza. Ma non è solo del clima che cambia, e della neve che scompare che si vuoi parlare oggi. C'è un altro dato che vien fuori dall'analisi del volume di antiche foto di Moggiona ed è relativo al paesaggio e ai suoi cambiamenti. I dintorni del vecchio paese, nelle foto di inizio novecento e sino alla fine degli anni cinquanta appaiono contrassegnati, sino quasi alla linea del crinale appenninico dalla presenza di un paesaggio rurale che adesso è scomparso: pascoli e campi di colture promiscue sono stati sostituiti dall' avanzare lento e ineluttabile del bosco. Oggi si esce dalle ultime case di Moggiona, in ambedue le direzioni e si trova subito la selva, la selva selvaggia, mentre una volta si viaggiava per chilometri attraverso pascoli e seminativi. E questo è un dato che riguarda ormai buona parte del Casentino, da Stia sino a Bibbiena, da Montemignaio a Chiusi della Verna. L'aumento massiccio del bosco nelle aree collinari va di pari passo con la scomparsa di pascoli e terreni coltivabili e con la corrispondente espansione degli agglomerati urbani ed industriali. Il Casentino si urbanizza sempre di più ed assieme si inselvatichisce, qualcosa che in natura e nella storia non si era mai visto. Presa nel bel mezzo di questi due fenomeni dirompenti, la campagna scompare, il paesaggio rurale tipico della vallata si riduce progressivamente e presto non sarà che un ricordo dei tempi andati. Dirà il solito supercritico: e che vuoi? Già stai sempre a criticare la cementificazione del fondovalle e ora fai lo schizzinoso con gli alberi, non ti va bene che aumenti la superficie boscata? Ma non lo sai che nei primi decenni del Novecento la superficie dei boschi in Italia era di tre milioni e mezzo di ettari ed oggi invece è di dieci milioni e che quindi è in atto una riforestazione? E non è un dato positivo, questo, almeno questo? Purtroppo la risposta a queste domande è no, non è così! Perché occorre non dimenticare mai che il paesaggio rurale italiano e quello toscano in particolare, che non a caso è (era) celebre nel mondo, reca fortissima l'impronta umana, è il luogo in cui la storia ha costruito un insieme di valori che poi sono stati adottati dalla cultura occidentale per intero, a partire dal Settecento. Il fenomeno in atto oggi è esattamente agli antipodi del paesaggio rurale toscano classico: la ri-naturalizzazione spontanea, derivante dall' abbandono delle campagne e dei pascoli, produce da un lato una banalizzazione paesaggistica, facendo scomparire le antiche partiture degli appezzamenti agricoli e riducendo la varietà di colori, di profili e di vegetazione che la Toscana ha vantato per secoli; dall' altro non porta alla formazione di boschi sani e coltivati e quindi produttivi. Basta andare a parlare con qualche vecchio boscaiolo di Badia Prataglia o di Cetica e vi sentirete dire che un tempo il bosco era coltivato come un giardino e, in quanto tale, era fonte di ricchezza, mentre oggi i boschi sono quasi del tutto abbandonati e che quindi è perfettamente stupido avere boschi estesi ma lasciati a se stessi. E la semplificazione del paesaggio rurale e forestale porta con sé la perdita della bio-diversità, tratto questo che costituisce (costituiva) una delle peculiarità positive del paesaggio italiano e toscano in particolare rispetto a quello di altri paesi europei e del mondo. Tanto per fare un esempio: in certe zone collinari della Toscana e quindi anche in Casentino, fino a tutto l'800, in un'area di 1.000 ettari si potevano contare almeno 24 tipi di seminativi arborati, 25 tipi fra pascoli e prati, 6 tipi di boschi. Il tutto determinava oltre 60 usi diversi del suolo organizzati in circa 600 tessere di un ricchissimo mosaico paesaggistico, quel mosaico che le foto d'epoca, sia pure in bianco e nero, ci fanno ancora intravedere. Oggi, nella stessa estensione si arriva ad un massimo di 18 diversi usi del suolo. Insomma, se prendiamo il propagarsi del bosco selvatico che determina la riduzione delle estensioni coltivate e di pascolo, vi aggiungiamo il procedere dell' agricoltura industrializzata che impone coltivazioni specializzate (le monocolture del grano o del mais o del girasole o della vite) e riduce le colture promiscue fonte di biodiversità, e, dulcis in fundo, mescoliamo il tutto con il sacco urbanistico del fondovalle e delle prime falde collinari, ne avremo alla fine, come risultato, la drammatica crisi in atto: vanishing landscape, paesaggio che scompare e con esso buona parte della nostra identità. È reversibile un tale processo? Si può fermare, prima che diventi impossibile, la metamorfosi definitiva del territorio? È certamente difficile, e c'è chi ritiene sia impossibile. Io dico che non solo si può, ma si deve. L'accelerazione sui problemi ambientali imposta dai mutamenti climatici in atto deve fornire stimoli e volontà per porre la tutela e la conservazione del paesaggio al centro del governo del territorio. E, per fortuna, qualcosa si sta muovendo. Il ministero dell'Agricoltura, per la prima volta, nel fissare le strategie agricole del prossimo settennato nell'ambito delle politiche comunitarie, ha stabilito di assegnare alla tutela del paesaggio un ruolo determinante e non tanto (e non solo) in nome di valori estetici, pur importanti, ma in quanto essenziale per lo sviluppo economico dell'agricoltura. Economisti importanti stanno scoprendo che la salvaguardia del paesaggio ha effetti benefici proprio sul successo di alcuni prodotti: chi negli USA o in Germania compra un vino del Chianti, lo compra anche perché attratto dai paesaggi legati alla sua produzione. E lo stesso può valere anche per il nostro Casentino: chi mai potrà trovare attraente il prosciutto o la farina di castagne o il miele o il formaggio o il farro prodotti nella vallata, se il territorio sarà in futuro sempre più saturato di capannoni con copertura in amianto, da villette a schiera di pessimo disegno e da estensioni forestali semi-selvatiche, nonostante il logo ormai stinto del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi? E quindi, per cominciare, dal momento che la Regione Toscana ha recepito nel proprio Piano di Indirizzo Territoriale (PIT) le indicazioni del Codice dei Beni Culturali emanate dall' omonimo Ministero, dove si parla di pianificazione paesistica e di qualità del paesaggio, perché anche le amministrazioni comunali del Casentino non iniziano a rivedere i propri strumenti urbanistici al fine di individuare la tutela del paesaggio come elemento centrale di governo del territorio, con ciò stesso ponendo fine alla sconcia speculazione edilizia in atto che sta devastando la vallata? Se vuole, la politica, quel che rimane della politica, può ancora invertire la rotta. Ancora più in concreto, dal momento che dall'Europa, sulla scia del Piano Strategico Nazionale di Sviluppo Rurale, arriveranno molti soldi, perché chi di dovere in Casentino, a cominciare dagli assessorati all'Agricoltura dei comuni, della C.M., della Provincia per passare alle associazioni di categoria, non inizia ad avanzare progetti per sviluppare la conoscenza dei paesaggi locali e delle loro caratteristiche? E da qui non si inizia ad incentivare chi favorisce il restauro di pratiche tradizionali come le canalizzazioni, le sistemazioni del terreno, le siepi, gli edifici in pietra, i sentieri, i muretti a secco, i terrazzamenti, i recinti, ecc.? E a garantire un reddito a quegli imprenditori che rinunciano a certe produzioni agricole industriali a favore di quelle biologiche, a chi pone limiti alle colture continue, a chi converte terreni in prati e pascoli o in seminativi. Qui, più che nei mercatoni o nei mercatini, può ancora risiedere una speranza per questo territorio, la speranza di una possibile alternativa economica e di un futuro per l'ambiente, per il turismo e per le giovani generazioni che in Casentino abiteranno negli anni che verranno. Alessandro Brezzi
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